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Produttori del Cuore #2 – Nicola Dal Santo, I Castagnucoli

Disintossicarsi dagli affanni quotidiani e riappropriarsi di un respiro più sensato. Assaggiare vini sorprendenti che si fan bere come autentici succhi di frutta. Conversare con una persona preparata e gentile. Questo è quel che si può fare ai Castagnucoli di Nicola Dal Santo. Con una avvertenza: buttare a mare l’abituale concezione del tempo e prendersela il più possibile comoda.

Siamo nel cuore dei Colli Euganei, nel minuscolo borgo di Cornoleda, sopra il comune di Cinto Euganeo. Appena prima del camposanto, in cima alla ripida salita che parte dal frantoio, si imbocca sulla sinistra una stradina bianca e piena di buche. Subito compare qualche ulivo, poi le prime vigne, e superata una curva stretta che costringe a rallentare ancora, di nuovo vecchie vigne, incorniciate da una vegetazione che sembra incolta, e che invece, a ben guardare, è vivida e traboccante di salute.

Quando incontriamo Nicola (che ormai conosciamo bene: qualche volta lo abbiamo persino aiutato a diraspare e a imbottigliare a mano nella sua piccola cantina, ricavata dal vecchio casolare dove vivono ancora i genitori), la sua radiolina analogica nera è sintonizzata come sempre su Rai Radio 3 (in onda, per la cronaca: “Tutta la città ne parla”) e un paio di salami casalinghi pendono sulle nostre teste da un gancio sistemato alle travi del soffitto. Durante l’intervista sorseggiamo il suo Raboso Frizzante. Metodo ancestrale (non un rifermentato in bottiglia, dunque, ma un vino fatto con una sola fermentazione che finisce il suo percorso in bottiglia) e zero solforosa aggiunta. Va giù che davvero è un piacere.

Nicola, quando nasce il desiderio di produrre vino?

Ho cominciato a fare vino appena dopo l’università. Dopo la laurea in Conservazione dei Beni Culturali a indirizzo Archeologico, a Venezia, avevo iniziato un dottorato di ricerca, che poi ho interrotto per dedicarmi completamente all’agricoltura. Mio padre, ex insegnate di liceo ora in pensione, iniziò a produrre vino verso la fine degli anni Settanta. Smise di imbottigliare verso l’inizio degli anni Novanta, ma continuò a produrre uva per terzi. La cantina dunque di fatto era chiusa, ma si continuava a vinificare per uso famigliare. E io davo una mano come potevo.

Il tuo modo di concepire l’agricoltura è in continuità con le pratiche che usava tuo padre?

Sì, perché io sono partito da ciò che mi ha insegnato mio padre. Già negli anni Ottanta lui aveva smesso di usare la chimica, e nel 1993 ha richiesto e ottenuto la certificazione biologica. Lavorava solo con fermentazioni spontanee, con filtrazioni minime, e poca solforosa.

Come definiresti il vino che oggi produci?

La risposta non può essere semplice. Vorrei dire che, al di là delle definizioni, io provo solo a fare il vino a modo mio. Vorrei semplicemente produrre un vino intimamente legato al mio territorio, al pezzo di terra in cui nasce la vigna, a quella particolare tipologia di uva allevata e a quella specifica annata, con tutto ciò che è stato in quei dodici mesi, dal clima alla potatura, dalla vendemmia alla vinificazione. La mia intenzione è quella di produrre un vino che non abbia interferenze con il prodotto della terra. Che nel bicchiere ci sia solo uva, senza altri additivi. La definizione di “vino naturale” è ancora oggi piuttosto labile, e ognuno la interpreta un po’ a modo suo. Spesso quello che intendo io per vino naturale non coincide con quello che intende qualcun altro. Per questo, a scanso di equivoci, per ora preferisco definire il mio vino nella lingua dialettale come “vin de ua”, vino fatto con l’uva.

Nello specifico, il tuo modo di concepire il lavoro agricolo ha qualche caratteristica peculiare?

Sappiamo che coltivare è sempre un’interferenza che l’uomo fa rispetto alla natura. Nel momento stesso in cui io interro una piantina in un determinato luogo sono consapevole che vado ad alterare l’ambiente circostante. Detto questo, io cerco nel mio lavoro di intervenire il meno possibile. Soprattutto con i cambiamenti climatici degli ultimi anni non si può abbandonare la vigna a sé stessa. Intervenire poco però dona una maggiore vitalità al terreno, a partire già dal cercarlo di calpestare meno, senza mezzi pesanti, tagliando poco l’erba e i fiori che ci sono tutto intorno. Personalmente, mi riconosco in quella che viene definita come agricoltura naturale da Masanobu Fukuoka. È quello, in fondo, a cui ambisco di arrivare.

E come intervieni, quando sei costretto a farlo?

Ho constatato che la prima buona prevenzione consiste proprio nell’incrementare la salute del terreno. Sono le piante a rendere fertile la terra, con l’interazione tra il vegetale e i microrganismi. E i risultati si vedono. Non ho grandi problemi di stress idrico nonostante la scarsità delle piogge. La gestione della potatura della chioma è fondamentale per la prevenzione delle malattie: io mi rifaccio alla potatura ramificata. Si tratta di un sistema che permette un accrescimento lento, ramificato appunto, della vite. Si allunga ogni anno un pochettino, senza esagerare. In caso di forti piogge intervengo con solfato di rame ed eventualmente zolfo. In un anno utilizzo poco più di due chili per ettaro di rame. Il disciplinare biologico – per avere un termine di paragone – ne permetterebbe sei.

In caso di necessità a chi ti rivolgi?

In passato ho provato a rivolgermi a qualche agronomo. Ma ora chiedo consigli solo ad altri agricoltori che condividono la mia visione, come Alfonso Soranzo di Monteforche, che sta qui vicino. C’è sempre, per fortuna, uno scambio di idee fra colleghi che condividono l’approccio agricolo.

La tua giornata tipo?

Ogni giorno vado in vigna. Per fare qualche lavoro o semplicemente per controllare che vada tutto bene. Cerco di stimolare la biodiversità, di limitare i danni da ruscellamento per le piogge torrenziali. Cerco, in fondo, di mantenere una tradizione di gestione del territorio che qui c’è sempre stata e che era alla base dell’agricoltura collinare, ma che poi è stata dimenticata. Oggi in queste zone la viticoltura si sta spostando nelle zone più basse, dove è possibile meccanizzare ogni processo.

L’influenza del movimento dei vini naturali, in questi anni?

L’ho vissuta in qualche modo in casa. In fondo, e per mia fortuna, già mio padre faceva quello che ora verrebbe definito “vino naturale”. E io sono partito da quelle basi lì. Ma a volte mi fermo e mi chiedo: abbiamo davvero bisogno di una definizione? Io per esempio sto pensando di uscire dalla certificazione biologica. Siamo certificati da venticinque anni e ne abbiamo visto la lenta evoluzione da vicino, con i costi aumentare quasi sempre sulle spalle degli agricoltori, o con il più cinico opportunismo commerciale delle grandi aziende…

(interviene il padre)

… negli anni Settanta la cassa rurale a cui ero iscritto ti concedeva un contributo per l’acquisto di fitofarmaci e di concimi chimici. E anche per piantare viti, naturalmente, ma a patto fossero a due metri almeno di distanza, cioè posizionate per essere trattate come volevano loro. Si faceva tanta uva, certo, ma la gradazione alcolica veniva sempre bassa: non avete idea di quanti soldi abbiano fatto le botteghe che vendevano zucchero sfuso. E ricordo che alle analisi mi criticavano sempre la carenza di anidride solforosa! Al tempo ci si vantava di mettere un sacco di solfiti, come per manifestare una certa generosità, in pieno stile industriale…

Quali sono secondo te le aspettative di un bevitore di vino naturale?

Non ho mai fatto vino per andare incontro a delle aspettative altrui, oppure al mercato. Lo provo a fare solo come piace a me. Sono contento quando viene apprezzato, naturalmente. Dall’anziano che ci rivede il vecchio vino di una volta, all’appassionato più curioso con magari svariati anni di assaggi alle spalle.

La degustazione?

Mi interessa prima di ogni cosa riconoscere le caratteristiche dei vari terreni. Per poter identificare una certa territorialità.

Come si riconosce un vino buono, a tuo giudizio?

È estremamente soggettivo, e andrebbe sempre sottolineato. Personalmente sento quando un vino è stato addizionato da anidride solforosa: questo mi disturba e quindi difficilmente riesco ad apprezzarlo. In generale, suggerirei di mantenere sempre un approccio emotivo. Quando il bere diventa una tecnica accademica, formalizzata sugli sterili punteggi, mi viene in mente sempre un concorso di bellezza…

Per finire: chi berrà il tuo vino, Nicola?

Per me è importane che chi vende il mio vino lo faccia perché ci crede, non perché va di moda il vino “non filtrato” o il vino “naturale”. E da questo punto di vista mi ritengo fortunato, perché ho a che fare con persone che valorizzano ciò che io provo a fare con fatica, e questo mi fa stare bene. Credo inoltre che il vino sia una buona chiave per andare oltre le logiche del mercato della compravendita più sterile. Spero che il mio lavoro sia anche un mezzo per sensibilizzare le persone a una visione meno consumistica della vita. Il cibo è alla base della nostra esistenza: io penso che non dovrebbe essere trattato come una merce qualsiasi. Non vi sembra?