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Produttori del Cuore #5 – Francesca Gozzo e Davide Boldrin, Vigna Flor

“Che tu sia lodato, mio Signore, per nostra sorella madre Terra, che ci sostenta e ci governa, e che produce frutti diversi, con fiori colorati ed erba.”

Isola, oasi, rifugio, Eden: Vigna Flor è un luogo ameno perché rigoglioso di vita. Di vitalità vera, armonica, con tutti gli elementi che lo compongono in una continua mutevole reciproca relazione, nell’ostinata ricerca di un equilibrio condiviso e possibile. Un sistema integrale e integrato, che tende all’autoregolazione: dunque, per definizione, una sorta di non-giardino, se il giardino solitamente immaginato è il più tipico giardino urbano iper ed etero regolato: un tristissimo giardino, provando a seguire Vitaliano Trevisan, addomesticato dalla mano anziché dalla mente dell’uomo (de-mente: privo di senno, al limite da compatire), e per questo solo apparentemente dominato dall’uomo, che si è auto-proclamato insieme giogo e tiranno (persino di se stesso, della sua stessa identica specie: ma ancora non lo sa). Come un tecnocrate miope, aspira al controllo di ciò che controllare non è filosoficamente possibile: il mondo della Natura, a cui pure egli partecipa.

Al primissimo sguardo, di fronte al cancello dell’Eden Vigna Flor (cancello che non c’è: ci sono invece Francesca e Davide ad accoglierci, con un sorriso che pare piuttosto un abbraccio; Flor è il nome della loro bambina): erba, verde e brillante. E subito dopo: fiori. Con il viola che dipinge i petali più sottili dell’iris, la calendula giallo-arancione che si schiude seguendo la luce in mezzo a una distesa di altri piccoli steli colorati, ciascuno di una sfumatura diversa. Poi gli odori, che camminando finalmente tra le viti (ci sono anche le viti, a Vigna Flor, e verrebbe come una voglia, potremmo dire francescana, di levarsi anche le scarpe che portiamo ai piedi) si presentano uno per uno al nostro passaggio e infine, se stiamo immobili, si manifestano uniti in un’irripetibile coro: ci sono il timo, l’aglio, l’asparago, l’ortica, diverse varietà di menta. Una minuscola pianta di cappero fa capolino da un sottile squarcio di roccia, baciata dal sole come fossimo a Pantelleria, isola figlia del vento. E il vento oggi spira e carezza anche qui, ci muove le maglie primaverili sul petto. È vento di metà maggio, impegnato a mitigare un esuberante battito del sole del tardo mattino (Il battito del sole: sarà il nome di un vino che assaggeremo tra poco) e che solletica la nostra pallida pelle (Sotto la pelle: sarà un altro nome di vino; la pelle chiara è soltanto la nostra: quella di Francesca e di Davide sono già di un caramello brillante). E ci sono, danzano e si fanno sentire, gli animali uno per uno: api, lucertole, vespe, cardellini, farfalle, fringuelli, insetti, bisce e rapaci, che in verità non sembrano preoccuparsi troppo della nostra umana presenza (i nostri piedi, se pure non scalzi, non sono ancora un trattore nemmeno se sommati fra loro): sono, ognuno degli animali, attori impegnati a tessere le relazioni più intime nell’ambizioso progetto di condivisione sinergica di un luogo e di un tempo in cui, per qualche ragione, si sono ritrovati a vivere insieme.

Noi siamo venuti quassù, a soltanto un centinaio di metri di altezza sulla pianura padana industrializzata che ora si vede di sotto, eppure in un luogo che per qualche ragione ci pare già quasi come montagna (come forse una altra montagna: un frammento di Sierra Nevada, o un ricordo lontano di Valtellina, assaporata e poi digerita da Francesca e da Davide in una delle tappe del loro ampio e profondo peregrinare, poi re-immaginata e infine messa a dimora sugli Euganei, con il curioso garbo del dubbio, in una costa esposta a meridione (verso Pantelleria) del Monte Gemola, che emerge da quello che fu un vulcanico mare, con l’intento – per quel ci riguarda – di chiedere loro per riuscire a saperne di più. Ma, per provare a comprendere, in questo biblico posto forse più che in ogni altro si intravede soltanto un possibile sentiero. Sono Francesca e poi Davide a indicarci la via: bisogna prima osservare, è necessario prima sentire.

Francesca e Davide somigliano ai pirati. Non fosse che i pirati non sono affatto buoni, almeno per come ce li hanno sempre presentati, noi suggeriremmo, senza dubbio, di pensare che pirati essi siano stati davvero, magari in altre vite e di sicuro altrove (dal greco peiratès: chi cerca la sua fortuna nelle avventure; chi, esplorando, tenta). Viaggiato hanno viaggiato parecchio, non solo per rendere onore agli studi socio-antropologici e ai corsi eno-gastronomici digeriti: osti alle Canarie su terraferma, cuochi sospesi su barche e barchini, sommelier, fondatori di un’enoteca coraggiosa in periferia, woofer curiosi in Sierra Nevada e Valtellina, sempre con la stessa bussola in tasca, quella della sostenibilità, unita alla convinzione convinta che se le cose sono davvero fatte bene, se sono fatte in un certo modo, allora sono necessariamente anche buone. E se pirati sono, oppure sono stati, allora sono pirati certamente gentili, che hanno solcato mari remoti che la maggior parte di noi non avrà fortuna di navigare, e convissuto con persone profetiche con cui la maggior parte di noi potrà forse solo scambiare qualche parola (un paio di figure su tutte: Lorenzo Corino, Marco Buratti). Hanno contemplato lo stesso identico cielo stellato, offerto l’orecchio al medesimo vento (Me lo ha detto il vento: ancora il nome di un vino), e assieme hanno provato a decidere, sbagliato, sofferto, a volte intuito forse qualcosa. Non contro qualcuno (l’industria agricola capitalistica in tutta la sua diabolica filiera, il mondo vitivinicolo in provetta, gli opportunisti del bio sarebbero forse tra i primi indiziati) ma per qualcosa: per costruire un progetto di vita pieno e liberatorio, olistico e non riduttivista, condiviso e non egoistico. Hanno esplorato ogni porzione di isola e si sono rimessi ogni volta in ascolto. E di ciascuna esperienza, spesso estrema per molti, di sicuro controvento, hanno provato a farne tesoro. Come i pirati, avranno certamente rubato un prezioso pezzo di conoscenza a ciascuno dei compagni di viaggio. Eppure noi preferiamo dire: hanno soltanto preso in prestito, disposti a rimettere in circolo ciò che hanno scoperto, e forse scopriranno, a beneficio di altri viandanti che di sicuro un giorno verranno (così come loro bussarono a Nicola Dal Santo o ad Alfonso Soranzo, e l’uscio fu aperto). E poi: si può forse dire lo stesso degli agricoltori industriali? Forse, per quantità e qualità, non sono loro i più autentici (più o meno consapevoli) predoni di terra, biodiversità e futuro, a danno del popolo contadino più vero, secondo il tragicomico copione di uno sviluppo fondato sul profitto pur che sia, con il sinistro benestare di Ministeri, Politiche Agricole e financo l’Unesco?

Mentre condividiamo una sobria e squisita pasta di farro con piselli di stagione a chilometro uno, preparata da Francesca e da Davide per loro stessi (accoglienti non-padroni di casa: la loro terra è ancora in affitto) e per noi (che ci sentiamo non-ospiti, tale è la qualità del clima di parole che si è andato a poco a poco creando), conservata dal primo mattino in comodi barattolini di vetro (la plastica non è presa in considerazione, a Vigna Flor: Francesca e Davide, mentre camminano, si chinano a raccogliere i pezzi di plastica verde lasciati in eredità da chi prima di loro era stato chiamato a “prendersi cura”, con le mani ma con tutta altra testa, della medesima vigna), pensiamo che sotto la pergola che ci dona nutrimento allo spirito sarebbero lieti di sostare anche Pasolini e Papa Francesco, Stefano Mancuso e Gregory Bateson, alle prese con il medesimo umile cibo, discorrendo di faccende complesse per mezzo di uno stesso accordo sul linguaggio, che è prima di altro una generosa disposizione d’animo da esercitare ogni giorno: un linguaggio che mira ad essere autentico, retto e perciò chiaro e sincero, che si esprime come un sorso di vino immaginato nell’Eden da i nostri pirati gentili, con grappoli d’uve diverse partoriti da piante che convivono fianco a fianco senza essere state cimate, per quanto possibile libere di esprimersi secondo la loro più autentica volontà e con i tempi che la loro stessa storia, in questo francobollo di terra, ha scelto di suggerire, anno per anno, in maniera sorprendentemente cangiante. Frutta, solo e soltanto questa. Diraspata con le mani, pigiata con i piedi. Neppure la solforosa è prevista dal progetto Vigna Flor: e non potrebbe essere altrimenti. Che senso potrebbe avere, alla fine di un percorso così concepito, aggiungere anche solo una manciata di polvere chimica per dormire sonni un po’ più tranquilli? Non qui, non in questo Giardino: sarebbe una contraddizione sufficiente per una vera scomunica. Sarebbe a rigore un Peccato. Un gesto incoerente al progetto, inconciliabile con tutte le sue principali ambiziose premesse. Il tentativo di allevare vini davvero liberamente, senza volontà di stupire, semplicemente in armonia con uomini, animali e piante. Nell’umana speranza di poterli un giorno condividere con un prossimo che sia il più ampio e diverso possibile, a partire dalla comunità di persone vicine e dalle relazioni più profonde che, fino a questa nuova tappa del loro viaggiare, Francesca e Davide sono riusciti a coltivare.

Ci sono isole di resistenza da scoprire, là fuori. Sono custodite da pirati gentili.

Queste parole sono state messe per iscritto nel mese di dicembre dell’anno Duemilaventi, dopo lungo meditare. Vogliono essere insieme sentito tributo e accorato appello, rivolti a tutte le donne e agli uomini di buona volontà che – come Francesca e Davide – trovano ancora la forza per immaginare un mondo vitivinicolo più bello, più giusto.

Grazie a Lucia Rapposelli per le fotografie, ad Alberto Andreatta per il garbato confronto, a Marco Martin del Buscaglione per aver saputo fornire, con uno sguardo, la chiave di lettura più giusta.